Andrea Spagnoli – avvocato tributarista
Con l’ordinanza n. 14102 del 21 maggio 2024, la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della ripartizione dell’onere probatorio nell’ambito di una frode IVA. In particolare, i Supremi giudici hanno delineato il perimetro delle cautele richieste ad un cessionario per escludere il suo coinvolgimento nell’ambito di una frode IVA consumata a monte della catena produttiva o distributiva e, conseguentemente, per escludere una limitazione del suo diritto alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto.
IL CASO
Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici di legittimità, alla società B. S.r.l. veniva contestato dall’Amministrazione finanziaria il diritto alla detrazione dell’IVA per acquisti ascrivibili ad operazioni soggettivamente inesistenti.
Le operazioni contestate, in particolare, si riferiscono agli acquisti eseguiti nei confronti di un imprenditore ritenuto privo di organizzazione.
Nei giudizi di merito, la Contribuente si è vista negare il riconoscimento del diritto di detrazione per l’assenza di adeguata manodopera da parte del fornitore e della falsità delle fatture di acquisto degli strumenti di produzione (macchine da cucire).
LA DECISIONE
La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso della Contribuente, ha ribadito il principio a mente del quale “ai fini dell’assolvimento dell’onere della prova della conoscenza o conoscibilità, secondo la massima diligenza esigibile da un accorto operatore professionale, dell’esistenza di una frode IVA consumata a monte della catena produttiva o distributiva, le cautele che si richiede che il concessionario sia tenuto ragionevolmente ad adottare, perché si escluda il suo coinvolgimento, anche solo per colpevole ignoranza, nella frode commessa a monte, non possono attingere a verifiche complesse e approfondite, analoghe a quelle che l’amministrazione finanziaria avrebbe i mezzi per effettuare”.
Nel caso di specie, in particolare, i giudici di legittimità hanno escluso la conoscenza/conoscibilità da parte della Ricorrente (e dunque il suo coinvolgimento, seppur indiretto) della frode IVA collocata a monte della catena produttiva. Ciò in quanto, l’impresa cedente risultava essere iscritta al Registro delle Imprese e non era nelle possibilità dell’impresa cessionaria porre in essere una più approfondita analisi circa la sua (dell’impresa fornitrice) struttura organizzativa, poiché sprovvista dei poteri e degli strumenti di indagine riconosciuti all’Amministrazione finanziaria.
IL COSTANTE ORIENTAMENTO DELLA GIURISPRUDENZA
La decisione della Corte di Cassazione consolida un orientamento giurisprudenziale in materia di ripartizione dell’onere della prova che si fonda su diverse pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.
Nella giurisprudenza comunitaria è ormai ricorrente il principio volto a responsabilizzare l’operatore economico che si sia inserito in una catena commerciale/distributiva in cui è stata compiuta una operazione fraudolenta secondo lo schema tipico della c.d. “frode carosello”. La conseguenza di tale coinvolgimento è rappresentata dalla perdita, in capo al cessionario, del diritto alla detrazione dell’IVA. Tuttavia, il disconoscimento del suddetto diritto non è automatico, ma dipende sostanzialmente dallo stato soggettivo dell’operatore economico. Sotto questa angolazione, infatti, la giurisprudenza europea ha chiarito che “il diritto alla detrazione va negato qualora risulti dimostrato alla luce di elementi oggettivi che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione si iscriveva in una evasione commessa dal fornitore o da altro operatore a monte” (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 6 settembre n. 2012, Toth, C-324/2011; 21 giugno 2012, Mahagében e Dàvid, C-80/2011 e C-142/2011; Cass. Sez.5, Sent. n. 7472 del 2016; Cass. Sez. 5, Sent. n. 25778 del 2014; Cass., Sez. 5, Sent. 2779 del 2009; Cass., Sez. 5, Sent. n. 8132 del 2011).
L‘Amministrazione finanziaria, la quale contesti che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta; la prova della consapevolezza dell’evasione richiede che l’Amministrazione finanziaria dimostri, in base ad elementi oggettivi e specifici non limitati alla mera fittizietà del fornitore, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere, con l’ordinaria diligenza in rapporto alla qualità professionale ricoperta, che l’operazione si inseriva in una evasione fiscale, ossia che egli disponeva di indizi idonei a porre sull’avviso qualunque imprenditore onesto e mediamente esperto sulla sostanziale inesistenza del contraente (cfr. Cass., n. 35113 del 14.12.2023; Cass. n. 9955 del 13.04.2023, la quale richiama: Cass. n. 9851 del 20.04.2018; Cass. n. 11873 del 15.05.2018; Cass. n. 17619 del 05.07.2018; Cass. n. 21104 del 24.08.2018; Cass. n. 27555 del 30.10.2018; Cass. n. 27566 del 30.10.2018; Cass. n. 5873 del 28.02.2019; Cass. n. 15369 del 20.07.2020).
In merito all’onere probatorio gravante sull’Amministrazione, dunque, “il beneficio del diritto a detrazione può essere negato solo se, dopo aver proceduto ad una valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale, è accertato che quest’ultimo ha commesso un’evasione dell’IVA o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento di tale diritto rientrava in una siffatta evasione. Il beneficio del diritto a detrazione può essere negato solo qualora tali fatti siano stati sufficientemente dimostrati con mezzi che non siano supposizioni” (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod Com SA, C-512/21; Sent. 11 novembre 2021, Ferimet, C-281/20 e la giurisprudenza ivi citata).
Ne consegue, pertanto, che è onere dell’Amministrazione finanziaria che intende negare il diritto alla detrazione dover “dimostrare in modo adeguato, conformemente alle norme in materia di prova previste dal diritto nazionale e senza pregiudicare l’efficacia del diritto dell’Unione, sia gli elementi oggettivi che provino l’esistenza dell’evasione stessa dell’IVA, sia quelli che dimostrino che il soggetto passivo ha commesso tale evasione o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a tale fondamento rientrava in detta evasione” (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod Com SA, C-512/21).
Di riflesso, incombe sul contribuente la prova contraria di aver agito in assenza di consapevolezza di partecipare ad un’evasione fiscale e di aver adoperato, per non essere coinvolto in una tale situazione, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (cfr. Cass., n. 35113 del 14.12.2023; Cass. n. 9955 del 13.04.2023, la quale richiama: Cass. n. 9851 del 20.04.2018; Cass. n. 11873 del 15.05.2018; Cass. n. 17619 del 05.07.2018; Cass. n. 21104 del 24.08.2018; Cass. n. 27555 del 30.10.2018; Cass. n. 27566 del 30.10.2018; Cass. n. 5873 del 28.02.2019; Cass. n. 15369 del 20.07.2020).
Discende da ciò che le situazioni che pregiudicano il diritto del soggetto passivo di detrarre l’IVA sulle operazioni di acquisto, non implicano necessariamente una sua conoscenza diretta della frode, essendo a tal fine sufficiente che lo stesso disponga di indizi idonei ad avvalorare il sospetto che la propria prestazione si iscrive in una catena commerciale viziata da una evasione dell’IVA.
Ebbene, tale considerazione ha portato la giurisprudenza comunitaria ad adottare un approccio precauzionale che non impone al contribuente di compiere indagini fiscali funzionali a far emergere irregolarità ed evasioni eventualmente commesse dalla propria controparte contrattuale, trattandosi, infatti, di compiti che rientrano nella competenza dell’Amministrazione finanziaria. Al contrario, secondo l’orientamento dominante, il contribuente è tenuto ad adottare “tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l’operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad un’evasione fiscale”. Così “qualora sussistano indizi che consentono di sospettare l’esistenza di irregolarità o di evasioni, un operatore accorto potrebbe, secondo le circostanze del caso di specie, vedersi obbligato ad assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità” (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 21 giugno 2012, Mahagében e Dàvid, C-80/11 e 142/11; Cass., Sez.5, Sent. n. 17818 del 2016; Cass., Sez. 5, Sent. n. 25778 del 2014).
In concreto, viene posto a carico del cessionario un obbligo di diligenza nella scelta del fornitore e di attenzione ai requisiti del soggetto cedente, che non possono sfuggire ad un contraente onesto ed accorto che operi in un determinato settore commerciale.
La prova contraria che incombe sul cessionario si traduce nella dimostrazione della propria buona fede, ossia nella prova di non essere riuscito ad abbandonare lo “stato di ignoranza” sul carattere fraudolento delle operazioni neanche usando la diligenza che è normale attendersi da un imprenditore accorto (cfr. Cass., Sez. 5, Sentt. n. 15044/2014, n 10414/2011 e n. 8132/2011).
Tuttavia, l’Amministrazione non può esigere che il soggetto passivo ponga in essere una serie di controlli complessi e approfonditi in relazione al suo fornitore, trasferendo di fatto su di esso gli atti di controllo incombenti su di essa (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod Com SA, C-512/21; Sent. 19 ottobre 2017, Paper Consult, C-101/16). Sul punto, appare oramai costante la giurisprudenza della medesima Corte di Giustizia nel ritenere che l’Autorità tributaria non possa pretendere che il soggetto passivo verifichi ”che l’emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio di tale diritto abbia la qualità di soggetto passivo, che disponga dei beni di cui trattasi e sia in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’IVA, o dall’altro lato, che il suddetto soggetto passivo disponga di documenti a tal riguardo” (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod Com SA, C-512/21; Sent. 4 giugno 2020, C-430/19; Sent. 21 giugno 2012, Mahagében e Dàvid, C-80/11 e C-142/11).
Ne consegue, pertanto, che non si può pretendere che il soggetto passivo proceda a verifiche complesse ed approfondite come quelle che possono essere effettuate dall’Amministrazione finanziaria in virtù dei propri poteri di accertamento e grazie all’ausilio dei mezzi di indagine a propria disposizione (cfr. Corte di Giustizia UE, Sent. 1° dicembre 2022, Aquila Part Prod Com SA, C-512/21).